L’ARTICOLO 18 È UNA SCHIFEZZA … MA TENIAMOCELO STRETTO

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Chi scrive è un uomo di destra, un liberale e considera il sistema economico USA il migliore del mondo. Conseguentemente, sarebbe favorevole a concedere libertà di licenziamento, come negli Stati Uniti. Sarebbe … ma non lo è. Infatti, invita a non abrogare l’articolo 18 o a non ridurre le garanzie che offre ai lavoratori. Il lettore, a questo punto, ipotizzerà che chi scrive sia affetto da una pericolosa forma di sdoppiamento della personalità o, perlomeno, sia vittima di un grave esaurimento nervoso. Magari fosse così! Purtroppo, sono alcune aziende italiane ad essere affette da problemi psichiatrici. Il che è molto peggio.
Spieghiamoci. In USA gli imprenditori conoscono la sola logica del profitto: promuovono dirigente chi è bravo e sbattono fuori chi produce poco. Forse non tutte le imprese a stelle e strisce funzionano così e forse la presente analisi risulta grossolana, ma in genere il meccanismo è questo: un sistema -alcuni dicono- crudele, ma sostanzialmente giusto.
E in Italia? Allora, in Italia, in primo luogo, occorre distinguere fra “aziende normali”, che operano in base a logiche di mercato, e “aziende particolari”, cioè quelle a partecipazione pubblica o che dipendono in un modo o nell’altro da entità pubbliche e dalla politica. Le assunzioni, nelle “aziende particolari”, avvengono secondo le regole che tutti sappiamo: inutile tornarci sopra. Ma anche le promozioni vi seguono le stesse logiche: spintarelle, politica e sesso.
Sì, sesso: mi dispiace per le lettrici e per me (perché so che mi attirerò l’accusa di essere un maschilista), ma spessissimissimissimo nelle “aziende particolari” le dirigentesse fanno carriera con il sudore delle proprie cosce. Ciò non avviene nelle “aziende normali”. Dubito, infatti, che un cummenda brianzolo affidi il settore vendite della sua fabrichetta all’amante. Nelle “aziende particolari”, invece, è prassi corrente ed accettata che puttanone decerebrate avanzino in grado con l’aiuto “interessato” di qualche dirigente, sotto l’occhio benevolo dei vertici aziendali, con la fattiva ed attiva collaborazione dell’ufficio del personale e senza che eventuali autorità di vigilanza abbiano alcunché da eccepire.
Da un punto di vista più generale possiamo osservare che nella fabrichetta del cummenda un lavoro viene affidato a chi meglio saprà gestirlo. Nelle “aziende particolari”, invece, avviene esattamente l’opposto. La dirigenza, poi, è generalmente riservata a rampolli di famiglia “aristocratica” ed a puttanone al loro servizio. Come può funzionare questo sistema assurdo? Funziona! Eccome se funziona! Ci sono ottimi metodi per farlo funzionare! Esempio: in una “azienda particolare” si decide di far fare carriera ad un ignorante rampollo di buona famiglia “aristocratica” o ad una puttanona decerebrata, che si prende amorevolmente cura dei bisogni inguinali di qualche dirigente. Pertanto, per metterlo/a in luce, gli/le si affida un lavoro prestigioso. Sorge, tuttavia, un problema: il divario fra le sue infime capacità e quelle elevate richieste per quel lavoro. Come superare l’impasse?
Semplice: si impone ad un altro dipendente, capace di svolgere quel lavoro, di condurlo occultamente a termine al posto dei suddetti rampollo o puttanona, ai quali, però, andrà il merito. E non basta: la stessa tecnica si usa anche quando i suddetti rampollo o puttanona abbiano raggiunto il grado di dirigente e vengano, conseguentemente, chiamati a guidare un ufficio. Ovviamente, mettere un incompetente in un posto di comando comporta rischi. Come evitare che la nave concluda la crociera sugli scogli? Niente paura: la panacea esiste e consiste nell’antico rimedio della sine cura, adattamento, mutatis mutandis, del meccanismo esposto or ora. In pratica, anche qui si pone un dipendente capace a fianco del/la nuovo/a dirigente/ssa, imponendogli di sobbarcarsi di tutti gli oneri e compiti relativi alla direzione.
Verrà spontaneo chiedersi perché persone colte e preparate accettino l’umiliazione di fungere da “schiavo occulto” per soggetti ignobili e squalificati. In primo luogo ed in via preliminare, è utile riferire che, in genere, si tratta di persone provenienti da ceti sociali “umili” e, quindi, predestinate a NON accedere ai ranghi alti della dirigenza, almeno in “aziende particolari”, in ossequio alla rispettatissima legge non scritta, che dal medioevo impone ai figli di fare lo stesso mestiere esercitato dal padre. E, in un Italia dove la violazione delle regole è l’unica regola, tale legge è l’unica ad essere osservata con scrupoloso rigore. Ma veniamo alle motivazioni per cui si accetta l’umiliazione. La ragione è semplice: un’azienda ha mille modi per ricattare i propri dipendenti. Ribellarsi significa come minimo autostroncarsi la carriera. Il che non impedisce che qualcuno opti per la rivolta, rifiutando un lavoro per il quale non è né pagato né gli sono attribuiti i privilegi del grado. Anche in questa Italia degradata e cialtrona, c’è qualcuno che una dignità la ha ancora. D’altronde, per chi è figlio di un operaio o di un commesso, il semplice divenire impiegato rappresenta un progresso sociale: potrebbe, quindi, ritenersi soddisfatto e voltare le spalle ad una carriera che, comunque, a causa delle sue umili origini, non sarebbe eccezionale.
Ovviamente, certe ferme prese di posizione presuppongono che, in ogni caso, sia salvo il posto di lavoro, tutelato dall’articolo 18, altrimenti il lavoratore di umili origini non avrebbe scampo e dovrebbe accettare il proprio destino di schiavo occulto col sorriso sulle labbra, se no verrebbe buttato fuori e morirebbe di fame. Per questo l’estensore delle presenti note ritiene opportuno mantenere in vita l’articolo 18, nonostante lo consideri una norma contraria all’efficienza economica.
So già le obiezioni che taluni potrebbero muovermi, asserendo che rimarrebbe sempre il divieto di effettuare licenziamenti “discriminatori” oppure che i licenziamenti disciplinari sarebbero, in ogni caso, assoggettati a ben precisi vincoli. Se permettete, le obiezioni non mi convincono. In primo luogo dal punto di vista giuridico, poiché, dalle proposte avanzate, sembra evincersi che non verrebbe considerato discriminatorio il licenziamento di un lavoratore, derivante dal suo rifiuto di effettuare un lavoro che non gli compete e, sovente, superiore alle sue mansioni e non corrispondente a grado e stipendio, al posto di un incapace. Ci sono poi motivazioni di fatto: in tutti questi decenni, di fronte ad episodi di malcostume come quelli descritti, la magistratura -diciamocelo sinceramente- ha latitato. Non dico che intenzionalmente abbia deciso di non intervenire, ma sicuramente si è dimostrata molto prudente di fronte alle imprese in cui la politica aveva un ruolo importante o la casta forti interessi. Chi ci dice che ora non userebbe l’istituto del licenziamento discriminatorio o interpreterebbe le norme di quello disciplinare con la stessa prudenza? Un discorso ancora peggiore va fatto per le autorità di vigilanza che negli ultimi decenni hanno “dormito da piedi”, rifiutandosi non solamente di intervenire, ma anche di verificare la veridicità di quanto loro comunicato. Che si sveglino ora dal loro sonno centenario è pura utopia, anche se le baciasse un battaglione di principi azzurri.
Quindi??? Quindi teniamoci l’articolo 18! È una schifezza, ma una schifezza utile. Lo abrogheremo quando l’Italia sarà un paese liberale e liberista, guidato da una borghesia competitiva e non da un’aristocrazia parassitaria e conoscerà una concorrenza vera anche fra lavoratori per la conquista dei posti di comando. Diversamente, avremmo un liberismo a senso unico, in cui i gradi bassi della piramide lavorativa dovrebbero rispettare ferree regole di mercato, mentre i vertici potrebbero crogiolarsi in un protezionismo che puzza di feudalesimo. Ed è questo l’odore che si sente in questo periodo, anche in certe dichiarazioni di chi se la prende con gli operai fannulloni. Sia ben chiaro: i fannulloni devono essere cacciati, ma non si comprende come mai si debba iniziare da chi ruba uno stipendio poco superiore ai mille euro, invece che da chi si appropria indebitamente di diecimila euro al mese non svolgendo il lavoro dirigenziale che gli/le compete -senza contare le altre migliaia che servono a retribuire gli schiavi occulti posti al suo servizio- e perdippiù avvelena il sistema con iniezioni di corruzione, che apportano sfiducia ed inducono chi lavora in certe aziende a tirare a campare, tanto non vale la pena di impegnarsi e tanto è già tutto deciso.
Sconcerta, poi, il silenzio sui fannulloni di alto lignaggio. Sconcerta soprattutto da parte del ministro incaricato di seguire questa materia, il quale, però, non ha mancato di comunicarci il Suo illuminante parere sullo spacco inguinale della gonna di una nota soubrette, apparsa in tv, affermando cha si sentiva offesa per un simile abbigliamento e che la televisione diffonde cattivi esempi. Al ministro ha risposto direttamente la soubrette, dicendo di essere una “show-girl” e, quindi, di ritenere naturale vestirsi in quel modo. E ha aggiunto: “Farebbe clamore se fosse una parlamentare a scendere le scale con quello spacco”. Prendendo lo spunto da tale affermazione, lo scrivente Tenerone ritiene utile sviluppare il concetto e richiamare l’attenzione del ministro sul fatto che sono le donne che esercitano una professione o rivestono un grado dirigenziale in un’azienda a dover evitare certi comportamenti e a “dare il buon esempio”, anche per non spubblicare la categoria femminile e vanificare anni di lotte per la parità. Purtroppo, è proprio fra queste donne che è invalsa la consuetudine di fare carriera, succhiando coscienziosamente protuberanze utili e strategicamente ben disposte. Sarebbe, pertanto, opportuno che il ministro si occupasse proprio di questi cattivi esempi, che allignano in zone assai prossime ai campi di attività in cui opera e ha operato. Pertanto, lo scrivente Tenerone, esorta morbidosamente il ministro ad attivarsi sul tema delle puttane in carriera, anche perché l’eliminazione di tali fenomeni consentirebbe, un giorno, l’abrogazione del famoso articolo 18. Conseguentemente, anche ricorrendo ad un’ardita citazione manzoniana, gli elargisce lo zuccheroso consiglio di non “cercare lontano”, ma di “scavare vicino”. Si badi bene: qui non si critica l’émpito moralistico del ministro, ma il suo strabismo, invitandolo a frustare i deretani giusti.
Un’ultima notazione: il vero fregato in tutta questa storia è il cummenda brianzolo, che ha lavorato indefessamente per mettere su la sua fabrichetta, che ha scelto i propri dirigenti in base al solo merito e che si ritrova a non poter licenziare un proprio operaio assenteista e, addirittura, a dover sborsare fior di quattrini per pagare le bollette elevatissime di società municipalizzate che impongono tariffe ladresche per mantenere allegre famigliole di dirigenti, con assunzioni di fratello in fratello, o per corrispondere pingui interessi destinati a mantenere segnorine divenute dirigentesse nel settore del credito in modo molto … sportivo.

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